‘Comunque vada… sarà un processo!’. Nasce da una battuta durante la discussione sul da farsi il titolo della campagna contro la repressione che presentiamo in questi in giorni. Una risata liberatoria che si è aperta sui nostri volti in una serata nella quale sfogliavamo increduli i fascicoli delle indagini sulle nostre proteste. Una risata che ci permette oggi di affrontare con maggiore tranquillità le tante, troppe, denunce che il movimento studentesco ed antifascista urbinate si è visto recapitare. Riusciamo ancora a ridere nonostante i processi e questo ci ha restituito il senso delle nostre lotte, ci ha convinti ad organizzarci per non rimanere soli di fronte alla repressione. La discussione su quanto sta avvenendo non riguarda solo noi, ma va fatta collettivamente e pubblicamente.
Diciannove denunce per interruzione di pubblico servizio, cinque per ingiurie ad un militante neofascista, una per un presidio ‘non comunicato’ e purtroppo abbiamo ragioni di credere che non sia finita qui. Due gli sgomberi coatti subiti negli ultimi mesi: l’aula C1Autogestita, storico spazio del movimento studentesco urbinate, e l’ex-Skorpio Occupato, struttura di proprietà Ersu da anni abbandonata e lasciata al degrado.
Cominciamo dalla fine:per noi quello che sta avvenendo è un processo repressivo, che ha dei responsabili ben precisi, una sua logica interna e che di riflesso ci consegna l’immagine di una democrazia autoritaria che non tollera l’espressione di dissenso.
Cominciamo dall’inizio. A partire dal 2008 il movimento studentesco ha vissuto un’importante stagione di crescita in tutto il paese: le proteste contro i tagli ai finanziamenti a scuola e università contenuti nella legge 133 riaggregano dopo tanti anni migliaia di studenti. Nasce l’Onda Anomala, un movimento che non chiede solamente che venga rifinanziata la formazione pubblica, ma pone al centro del dibattito il tema del diritto al futuro per i giovani di questo paese. Nonostante i giornali smettano presto di parlarne il movimento studentesco dopo l’autunno del 2008 prosegue la propria riflessione e i segni di questo si vedranno due anni dopo, nell’autunno 2010, quando un’altra grande mareggiata studentesca scuoterà l’Italia.
Ad Urbino nel 2008 il tempo della protesta di piazza è stato breve ma molto fecondo in termini di relazioni e produzione di percorsi studenteschi autonomi. Come segno tangibile di quella prima ondata rimaneva infatti l’aula autogestita C1 e la pratica dell’autoformazione. Da quel momento la C1 è stata per quattro anni un esperimento di autogestione della vita culturale studentesca e un luogo dove sviluppare un pensiero critico all’interno dell’università. Uno spazio liberato, luogo di aggregazione ed autorganizzazione in cui si sono incrociate le più diverse esperienze politiche ed umane. Tante le persone che hanno attraversato la C1, tra le quali figurano anche molti professori di questo ateneo. Troppe le attività svolte al suo interno per elencarle tutte: presentazione di libri, dibattiti, laboratori di teatro, cineforum, seminari di autoformazione, assemblee, pranzi sociali e tanto altro. Uno spazio unico nel suo genere in un piccolo centro come Urbino e infatti, superate le prime diffidenze, anche una parte della città aveva imparato negli anni a riconoscere nella C1 un punto di riferimento importante per studenti e cittadini.
Nel 2010 il movimento studentesco è di nuovo in piazza e questa volta Urbino, nonostante le sue ridotte dimensioni, si distingue per la lunga resistenza opposta allo smantellamento del diritto allo studio ed alla riforma dell’università c.d. Gelmini. Il paziente lavoro prodotto in C1 e lo sforzo profuso per non ripetere gli errori del 2008 riescono nel giro di tre mesi a costruire una vasta mobilitazione che culminerà con l’occupazione del Nuovo Magistero. Sono di questi mesi le prime denuncie che hanno colpito il movimento studentesco a Urbino ed in tante altre realtà universitarie. Non possiamo oggi sottacere l’importanza di quelle lotte e, contemporaneamente, la portata della sconfitta. Il movimento studentesco, che sul piano nazionale ha perso la propria battaglia per una riforma dal basso del sistema universitario, ad Urbino è stato capace di arginare il definanziamento del diritto allo studio. Dopo tre mesi di proteste che si spinsero fin sotto i palazzi della regione Marche (di cui l’ERSU è ente strumentale) il movimento ottenne che agli idonei alla borsa di studio che non rientravano nelle graduatorie venissero almeno erogati gratuitamente i servizi di vitto e alloggio e riuscì a sventare l’esternalizzazione del servizio di assistenza disabili.
Il quadro complessivo delle lotte di questi ultimi anni ci serve a comprendere la natura politica del processo repressivo che abbiamo ipotizzato all’inizio. Le prime denuncie che ci riguardano nascono infatti in questo contesto. Facciamo un esempio. Entrare a mensa in centinaia ed auto erogarsi il pasto è un gesto di riappropriazione che, al di là del profilo legale, noi consideriamo sacrosanto di per sé. Ma il fatto che questa azione sia avvenuta mentre erano in corso trattative con la regione Marche per determinare la copertura delle borse di studio e mentre in parlamento era in discussione una riforma dell’università ampiamente contestata, ne chiarisce la dimensione politica. In centinaia siamo entrati pacificamente in mensa e tutti insieme abbiamo deciso di dare un segnale forte: stiamo chiedendo ciò che, almeno in teoria, dovrebbe essere già nostro. 330 pasti distribuiti gratuitamente sono solo una piccolissima parte di quanto ci spetta. Nel momento in cui siamo entrati a mensa tanto gli altri studenti già presenti a mensa, quanto il personale Ersu hanno capito perfettamente il significato della nostra azione e la maggior parte di questi ha condiviso e sostenuto le nostre ragioni. Le amministrazioni (Ersu, università e comune) da parte loro non hanno in questi anni dato alcuna risposta seria alle istanze poste.
Arriviamo quindi allo scorso anno, che ha segnato uno spartiacque nella storia del movimentismo urbinate. Se lo slogan che riecheggiava nelle piazze occupate dall’Onda Anomala era ‘Noi la crisi non la paghiamo!’, è chiaro come studentesse e studenti fossero consci sin da allora di come la situazione di scuole e università fosse un portato della crisi economica. È quindi ovvio che il movimento studentesco ha guardato sin da subito con molto interesse al ciclo di lotte iniziate con la primavera araba, proseguite con le ‘acampadas’ del movimento 15M in Spagna e che hanno poi trovato una risonanza oltreoceano con il movimento Occupy Wall Street.
Questo movimento internazionale, con tutte le sue contraddizioni, sta infatti sfidando direttamente l’assetto neoliberista e il movimento studentesco aderisce con entusiasmo a questa nuova fase di mobilitazione. A Urbino il tentativo è stato quello di avviare un percorso di confronto con il territorio e di avvicinamento alle istanze che da questo provengono. Questo nuovo corso, inaugurato dalle tende di Occupy Urbino e dalla campagna di comunicazione ‘SEnza di noi URBINO MUORE’, ha come nodo centrale quello degli spazi sociali nella città di Urbino. Era necessario rispondere alla chiusura degli spazi pubblici, a partire da quelli universitari, dalle sale studio ai campi da calcetto. Parlare di utilizzo e gestione degli spazi ci ha inoltre permesso di aprire un dibattito più ampio con la città. A muoverci è stata la voglia di sperimentare un’altra socialità, di promuovere percorsi di mutuo aiuto, di far valere il principio autogestionario al di là dei codici istituzionali e di diffondere cultura liberamente oltre la logica del profitto. Mentre noi cominciavamo a ragionare di ‘diritto alla città’ il Rettore lavorava allo sgombero della C1.
Lo sgombero dell’aula autogestita è emblematico dello ‘stile di governo’ che qui denunciamo come repressivo. Da tempo eravamo a conoscenza del fatto che il Rettore era ansioso di liberarsi dell’unico spazio autogestito all’interno dell’ateneo, ma mai avremmo creduto che avrebbe approfittato di un momento di emergenza per far valere quest’ordine. Mentre le studentesse e gli studenti del collettivo che ha animato l’aula stavano generosamente dando il proprio contributo a superare l’emergenza neve che ha colpito la città lo scorso anno, dalla sua residenza riminese il Rettore organizzava lo sgombero manu militari della C1Autogestita. Alla riapertura dell’università dopo il ‘nevone’ i corridoi della facoltà erano pieni dei poliziotti venuti a sorvegliare un’aula ormai vuota e chiusa a chiave.
Lo sgombero della C1 ha segnato un punto di rottura perché dopo questo episodio è diventato evidente l’utilizzo politico della forza pubblica. La presenza dei reparti della celere di fronte alle facoltà e nelle piazze cittadine è stata una costante degli ultimi due anni e noi a questa militarizzazione inutile ci siamo sempre apertamente opposti. Tralasciando per un momento le vicende studentesche, e guardando alla città e alle sue esigenze, noi ancor oggi non riusciamo a vedere nei giovedì sera un problema di ordine pubblico, né possiamo giustificare in alcun modo inutili dimostrazioni di forza come il blitz che avvenne il 10 novembre scorso a Ponte Armellina, quartiere operaio noto alle cronache come Urbino2. Crediamo sia uno spreco di soldi pubblici continuare a richiedere un intervento delle forze dell’ordine così cospicuo in contesti dove questo non risulta necessario. Tutto questo ci sembra ancor più intollerabile quando poi accade che la forza pubblica si disponga a tutelare forze politiche neofasciste nell’atto di fare propaganda.
L’attenzione verso il territorio ha per noi significato sin da subito stabilire un nuovo presidio antifascista in città. Oltre a coltivare la memoria della resistenza in occasione del 25 aprile con l’evento ‘(R)Esistenze Anomale – Festa delle resistenze d’oggi’, e a dare quindi il nostro contributo allo svilup-po di un antifascismo culturale, crediamo che la crescita dei gruppi neofascisti in Italia ed in Europa dimostri l’urgenza di un antifascismo militante che monitori il fenomeno e lo contenga. Quando, come nell’aprile 2011, un gruppo di neofascisti che distribuiva volantini chiaramente xenofobi venne autorizzato a fare un presidio noi ci siamo opposti mettendo i nostri corpi tra i fascisti e la piazza. Abbiamo sentito il dovere di coprire quello scempio che, oltre ad offendere la memoria antifascista di questa città, era insultante per i migranti che qui vivono e lavorano. Non abbiamo comunque in alcun modo reagito alle provocazioni che provenivano dai fascisti, mentre le forze dell’ordine in quell’occasione sembravano unicamente interessate a tutelare il diritto democratico di un gruppo neofascista di distribuire volantini esplicitamente razzisti. Questa triste situazione venne denunciata a gran voce dai numerosi militanti antifascisti presenti in piazza quel giorno e forse anche per questo cinque di noi devono affrontare un processo. La classe politica cittadina, con l’eccezione di Rifondazione Comunista, non è stata capace di dire nulla in merito.
Il combinato di uso della forza pubblica da un lato e silenzio della politica istituzionale e di tutte le forze democratiche dall’altro è infatti la caratteristica principale del processo repressivo che stiamo descrivendo. Lo stesso modello verrà seguito dalla classe dirigente per trattare l’occupazione dell’ex-Skorpio. Dopo il vergognoso sgombero della C1 il collettivo ha cercato prima di tutto di capire che cosa stesse accadendo. Molte denunce erano già arrivate e lo sgombero andava a completare un quadro inquietante. L’attacco sfrontato che la stampa locale ha scatenato nei nostri confronti ci ha poi confermato che non ci sbagliavamo: risultava evidente che un processo repressivo si era avviato. Che fare? Il collettivo, che da tempo aveva avviato un lavoro con associazioni e gruppi del territorio, ha scelto la cosa più naturale: andarsene dall’università e verificare se la città, con tutte le sue contraddizioni, fosse in grado di raccogliere un percorso già vivo nel territorio. Le studentesse e gli studenti in mobilitazione solo nell’ultimo anno hanno infatti partecipato alla battaglia referendaria per i beni comuni, lavorato duramente durante il ‘nevone’ (gli ‘spalatori autorganizzati’), costruito un rapporto con l’ambientalismo locale e un recente ma prolifico incontro con i Gruppo di Acquisto Solidale di Urbino e i produttori agricoli del territorio. C’era insomma la ragionevole speranza che rilanciare la lotta sugli spazi con un’occupazione non sarebbe stato interpretato come un gesto di prepotente arroganza che andava squalificato in nome del sacro valore della legalità, ma che avrebbe anzi potuto raccogliere le istanze di cambiamento di parte del tessuto cittadino.
L’ex-Skorpio voleva infatti essere, nelle nostre intenzioni, un luogo all’interno del quale sviluppare tanto percorsi alternativi sul piano artistico e culturale, quanto dare finalmente spazio a nuove forme di mutualismo. Lo spazio sociale era per noi una politica contro la crisi e avevamo la strana speranza che come tale venisse inteso. Un’istanza politica si è invece trasformata per l’ennesima volta in problema di ordine pubblico. A niente è servito un appello pubblico di un gruppo di professoriche chiedeva al mondo politico di riflettere sull’opportunità che uno spazio sociale autogestito poteva rappresentare per la città. L’ex-Skorpio, la cui autogestione cominciava a prendere forma, è stato sgomberato il giorno prima dell’iniziativa “l’ex-Skorpio incontra la città”, il cui scopo era appunto quello di presentare le attività che intendevamo ospitare all’interno dello spazio. Il colpevole silenzio della politica ha permesso che la forza pubblica sgomberasse dei locali inutilizzati da anni per restituirli così al degrado.
Oltre a denunciare un processo repressivo abbiamo affermato che questo ha una sua logica e dei responsabili. La logica, dovrebbe essere oramai chiaro, è quella di negare l’agibilità politica a chi esprime dissenso. Specialmente in questa parte d’Italia che, dopo essere stata raccontata per anni come terra di benessere sociale (la terza Italia, cuore rosso del paese, terra di piccola impresa responsabile ecc.), è oggi investita in pieno dalla crisi economica, politica e sociale, è importante che nessun neghi la bontà della classe dirigente locale. Si vorrebbe un territorio pacificato nonostante i pesanti processi di impoverimento che lo attraversano. Chi lo vuole è una classe dirigente spaventata, incapace di gestire una crisi che colpisce università, enti pubblici e territorio in profondità. Il Rettore Pivato ed il suo direttore amministrativo, il presidente dell’Ersu Giancarlo Sacchi e il direttore Massimo Fortini, così come il sindaco di Urbino Franco Corbucci e la sua Giunta sono quelli che, data la posizione, hanno le maggiori responsabilità politiche del processo repressivo in corso. Dietro di loro una serie di gruppi di potere tutti intenti a garantire che ‘tutto cambi affinchè nulla cambi’. Alla classe dirigente interessa solo la riproduzione della classe dirigente stessa ed è questa la ragione per cui, oltre a non interessarsi alle conseguenze sociali dei loro pareggi di bilancio, hanno bisogno di negare qualunque agibilità politica a chi li contesta, anche e soprattutto quando chi lo fa crea ricchezza sociale impossibile da mettere a valore. Di noi, del collettivo studentesco che ha cercato di raccogliere l’esperienza del movimento e di farla vivere sul territorio, è stato detto di tutto. Non ci interessa qui fare la lista delle accuse e tentare delle smentite, ma c’è ne una in particolare che merita di essere approfondita in quanto rivelatrice. Capita di sentir dire che le studentesse e gli studenti a processo siano un’esigua minoranza della componente studentesca, che questi siano poco rappresentativi. Questo dovrebbe servire a giustificare sgomberi e denunce. Noi crediamo che questo sia il segno di un’idea di democrazia autoritaria, che alla minoranza riserva solo esclusione dal dibattito e repressione. C’è in atto una limitazione alla libertà di espressione e del sacrosanto diritto al dissenso politico!
Democrazia autoritaria quindi. Questa definizione approssimativa, che abbiamo cercato di dare in forma narrativa, non sarebbe però completa se non chiarissimo come questa sia adeguata non solo a questo territorio ma a gran parte dei centri italiani, a buona parte d’Europa e soprattutto, per essere più chiari, a tutti i paesi dell’alleanza atlantica che sulla repressione del dissenso hanno elaborato un vero e proprio piano strategico (Urban Nato Operation 2020). In tutto l’occidente vediamo la polizia intervenire brutalmente sulle persone che collettivamente reclamano il diritto a una vita diversa da quella decisa dai centri di comando della finanza e della politica istituzionale. Per limitarci al caso italiano son ancore vive di fronte ai nostri occhi le immagini di quanto accadde a Genova nel 2001. Il G8 di Genova venne definito da Amnesty International ’la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale’ e pensiamo che non ci sia definizione più adeguata di quei giorni. È anche per questo, ma non solo, che sosteniamo la campagna ‘10×100-G8Genova 2001 non è finita!’. Siamo solidali con i compagni e le compagne agli arresti perché riteniamo profondamente ingiusto reprimere il dissenso relegandolo ad un problema di ordine pubblico. Quel dissenso che si è fatto movimento e che da Seattle a Genova, dalle facoltà occupate a Occupy Wall Street, da piazza Tahrir alle piazze spagnole nuovamente in rivolta, lotta per qualcosa di più grande e cioè, come disse a suo tempo Susan George per il movimento no global, perché “vuole solo giustizia per il mondo intero”. Per noi un futuro diverso si costruisce ancora su queste premesse.
Democrazia autoritaria dicevamo. E non possiamo non pensare subito alla valle che resiste, la Val di Susa. Il movimento NoTav ci racconta, con la sua lotta ventennale e l’attuale militarizzazione del territorio valsusino, di una classe politica miope ed autoritaria che anche di fronte ad un movimento popolare variegato e compatto riesce a rispondere solo con l’ uso della forza pubblica. Siamo stati in Valsusa e abbiamo visto con i nostri occhi le gravi violenze subite dagli abitanti della valle, abbiamo respirato il gas dei lacrimogeni e visto i compagni feriti da quelli sparati ad altezza uomo. Oggi per quelle giornate di lotta molti sono agli arresti domiciliari, altri in carcere, altri ancora in attesa di giudizio con accuse pesanti a proprio carico. Anche a loro, in questo momento nel quale denunciamo la repressione nel nostro territorio, va la nostra solidarietà. La nostra solidarietà e il nostro sostegno vanno anche a tutt* i compagni e le compagne colpit* dalla repressione in tutto il paese.
La contro-narrazione si chiude qua. Siamo all’oggi. Oggi siamo arrabbiati e frustrati, ma con nessuna intenzione di stare in silenzio. Vogliamo difendere pubblicamente le nostre ragioni ed anche affrontare i processi nel migliore dei modi possibili ed è per questo vi chiediamo di sostenerci firmando l’appello on-line ‘Comunque vada…sarà un processo!’ e, per chi ne avesse la possibilità, di contribuire al pagamento delle spese legali inviando una sottoscrizione intestata a ‘Studenti in Movimento’, codice IBAN IT24 T076 0113 3000 0100 5931678, indicando nella causale “Campagna Comunque Vada”.
Una mano alla penna e l’altra, se possibile, al portafoglio…
Comunque vada…sarà un processo!
Comitato contro la repressione – Urbino